“Desert solitaire” è diventato un libro di culto sin dalla sua pubblicazione, nel 1968. Un racconto provocatorio e mistico, arrabbiato e appassionato, in cui Edward Abbey ci restituisce la sua esperienza di ranger nell’Arches National Monument, nel Sudest dello Utah, catturandone l’essenza e trasmettendoci il desiderio di vivere nella natura e conoscerla nella sua forma più pura: silenzio, lotta, bellezza abbagliante. Ma “Desert solitaire” è anche il grido angosciato di un uomo pronto a sfidare il crescente sfruttamento operato dall’industria petrolifera, mineraria e del turismo. Sono trascorsi quasi cinquant’anni, e le osservazioni di Abbey, le sue battaglie, non hanno perso nulla della loro rilevanza. Anzi, oggi più che mai, “Desert solitaire” ci chiama a combattere, mettendoci di fronte a un’ultima domanda fondamentale: riusciremo a salvare ciò che resta dei nostri tesori naturali prima che i bulldozer manovrati dal profitto colpiscano ancora?
Desert solitaire.
Una stagione nella natura selvaggia
Edward Abbey
“Le montagne sono quasi senza neve, a parte alcune chiazze nei canaloni sui versanti rivolti a nord. Quelle distese di neve rinsecchite sono comunque consolanti. Mi rassicurano con la promessa che se quaggiù il caldo si facesse intollerabile potrei sempre rifugiarmi per un paio di giorni alla settimana sulle montagne. Sapere che ho un rifugio a disposizione rende più sopportabile l’inferno silenzioso del deserto. Le montagne completano il deserto come il deserto completa la città, come la natura selvaggia integra e completa la città.
Si può amare e difendere la natura anche senza avere mai lasciato i confini di asfalto, linee elettriche e superfici ad angolo retto. Abbiamo bisogno della natura, che ci abbiamo messo piede oppure no. Abbiamo bisogno di un rifugio, anche se potremmo non andarci mai. Abbiamo bisogno di una vita di fuga quanto abbiamo bisogno della speranza; altrimenti la vita nelle città spingerebbe tutti gli uomini verso il crimine, le droghe o la psicoanalisi.”
“Sono quasi disposto a credere che questa dolce terra verginale e primitiva sarà grata per la mia partenza e l’assenza di turisti.
Grata per la nostra partenza? Un’altra espressione di vanità umana. La migliore qualità di queste pietre, piante e animali, di questo panorama desertico è la manifesta indifferenza alla nostra presenza, alla nostra assenza, al nostro arrivo, permanenza o partenza. Il deserto non è minimamente toccato dalla nostra vita e dalla nostra morte. Gli uomini, nella loro follia, facciano pure esplodere tutte le città della Terra, trasformandole in macerie annerite, avvolgano pure l’intero pianeta in una nuvola di gas letali, ma i canyon e le colline, le sorgenti e le rocce saranno ancora qui, la luce del sole filtrerà, l’acqua si formerà e il calore salirà dal terreno e trascorso il tempo necessario, non importa quanto lungo, la vita ritornerà, risorgerà, questa volta forse per prendere un corso diverso e migliore.”
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